QUALE FESTA DEL LAVORO

di angelo perrone *

Tutto è cambiato, anche nelle manifestazioni che accompagnano la Festa del lavoro il 1 maggio. Non devono mancare però né la consapevolezza dei problemi che il Covid-19 ha reso più drammatici, né momenti di allegria e spensieratezza. Per dirci che, soprattutto nelle difficoltà, abbiamo bisogno di fiducia e tenacia.

La tela dipinta da Giuseppe Pellizza da Volpedo nel 1901 è l’immagine più iconica da associare alla Festa del lavoro, che si celebra il 1 maggio. Chi sono i soggetti ritratti ed elevati a simbolo della lotte operaie e contadine? «Son uomini, donne, vecchi, bambini: affamati tutti che vengono a reclamare ciò che è di diritto. Sereni e calmi, come chi sa di domandare né più né meno di quel che gli spetta», scrisse lo stesso autore. Un’immagine della sofferenza composta, dell’affermazione pacata ma vigorosa dei propri diritti, il desiderio del riscatto dopo una vita di sacrifici e talora di stenti. Una manifestazione di protesta, che si basa sulla compattezza, sulla comunione di intenti, sulla vicinanza delle sorti.

Con gli occhi della stagione che attraversiamo, prima ancora di qualsiasi riflessione sulla nascita della Festa e sull’attualità del significato, ci sorprende il colpo d’occhio, sta a sottolineare il tempo trascorso. Così lungo e pieno di implicazioni. Un sovvertimento storico. Non c’è distanza tra questi soggetti dipinti da Pellizza, anzi procedono ravvicinati e uniti. Non temono di stare a contatto gli uni con gli altri, giovani e vecchi. Nulla a proteggere il respiro, a coprire il volto. Il Covid-19 avrebbe costretto quegli stessi dimostranti a mantenere le distanze, a farsi da parte ed evitarsi, a non poter comunicare, con i gesti ravvicinati, l’unità degli scopi e la comunanza dei sentimenti.

Letto il passato con gli occhi del presente, non sarebbe stata l’unica divergenza. Quanti dei lavoratori di oggi avrebbero avuto titolo di partecipare a quella manifestazione, avrebbero potuto ancora dire di avere un lavoro da difendere e da migliorare? Pochi, sempre meno, a guardarci intorno, ad osservare le conseguenze della pandemia: chiusura di fabbriche, sospensione delle occupazioni, perdita dei posti di lavoro.

Di questo, si trattò allora. La Festa del lavoro nacque e si affermò ovunque come giornata della rivendicazione del diritto a condizioni umane di lavoro. Quanto al tempo, alla durata, al modo di svolgerlo. Nelle fabbriche, nelle campagne, ovunque. La data ricorda infatti lo sciopero generale indetto il 1 maggio 1886 negli Stati uniti per ottenere la giornata lavorativa di 8 ore, da che poteva essere di 12 o di 15, senza limiti. Manifestazione globale culminata tre giorni dopo nel massacro di piazza Haymarket a Chicago. Ma ovunque, in Francia, in Italia, nel mondo, la richiesta era sempre la stessa, riduzione dell’orario di lavoro, condizioni più umane e dignitose di lavoro. Tanto che in Australia venne coniato il motto: «Otto ore di lavoro, otto di svago, otto per dormire».

Era il diritto di chi un lavoro l’aveva, piuttosto che il diritto di chi non era privo, stava ai margini della società e del mondo produttivo, reclamava la mancanza di un lavoro, secondo bisogno e capacità. Quest’ultimo venne dopo, esito e prosecuzione di tutte le lotte precedenti, sviluppo della coscienza civile dei popoli, completamento del quadro dei diritti della persona e del cittadino. Il principio che, per quanto riguarda l’Italia, trova nell’art. 1 delle Costituzione («L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro») il suo riferimento più alto. Per quanto disatteso spesso nella realtà, inapplicato largamente, specie riguardo ai più giovani, e oggi a rischio d’essere travolto dal Covid-19.

Dal 1990 eravamo abituati al “concertone” di Roma in occasione del 1 maggio, raduno di gente e maratona musicale, sempre svoltosi, nonostante tutte le disavventure e le crisi economiche che si sono succedute, e che hanno messo a repentaglio proprio il lavoro festeggiato in questo giorno. E tuttavia quello era pur sempre un momento importante. In contesti storici anche grigi e durissimi, era una finestra simbolica di speranza, di fiducia, persino di gioia. Una pausa in tante lotte, per un’allegria necessaria, pur consapevole dei momenti difficili.

Oggi non ci sono neppure cortei, manifestazioni, oltre al concertone: le strade, dove far risuonare le parole di lotta e i canti di serenità, sono tragicamente silenziose. Ci mancano tutti quei momenti del 1 maggio, che raccontano la nostra storia. I bisogni, le energie da mettere a frutto. Dobbiamo ricercare altrove il senso di fiducia, di operosità e di tenacia. Che l’attuale stagione rende, se possibile, ancora più indispensabile, per andare avanti.

* Angelo Perrone, giurista, è stato pubblico ministero e giudice. Cura percorsi professionali formativi, si interessa prevalentemente di diritto penale, politiche per la giustizia, diritti civili e gestione delle istituzioni. Autore di saggi, articoli e monografie. Ha collaborato e collabora con testate cartacee (La Nazione, Il Tirreno) e on line (La Voce di New York, Critica Liberale). Ha fondato e dirige Pagine letterarie, rivista on line di cultura, arte, fotografia.

 

 

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