DEMOCRAZIA DOPO IL COVID 19

di gim cassano

Sono molti gli interrogativi che si pongono coloro che ritengono ancora, per dirla con Churchill (la cui arguzia andava ben oltre il pensiero politico) che “la democrazia sia la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte le altre sinora sperimentate”. In buona sostanza, ci si chiede se e come la democrazia potrà sopravvivere alle emergenze attuali: prima a quella sanitaria e poi a quelle economico-sociali e sicuramente anche politiche che ne seguiranno, interne ai singoli Paesi e nei rapporti tra questi.

Dovremo cioè immaginare che queste emergenze possano trovare risposta solo nel dilagare dei nazional-populismi o con l’adottare modelli di autoritarismo politico-tecnocratico posti a tutela di economie improntate a criteri ordo-liberisti se non apertamente liberisti, nelle quali, oltre che vanificare diritti individuali e sociali ed estendere e approfondire le diseguaglianze interne ed esterne, sia compressa l’autonomia, la vitalità e l’esistenza dei corpi sociali intermedi, e nei quali sia mantenuto poco più che un simulacro di democrazia formale, fondato sulla preminenza degli esecutivi e sullo svuotamento della rappresentanza popolare? Dovremo immaginare che l’unica alternativa all’incapacità di governo degli scarsi organismi sopranazionali sia la ripresa dello Stato-Nazione?

Francamente, credo che la risposta possa e debba essere diversa da questi scenari.

Occorre premettere che, a prescindere dall’attuale epidemia, già da tempo erano numerose le voci critiche, non solo di matrice marxista che, osservando l’indirizzo liberista e tecnocratico, e quindi illiberale, delle società industriali, ne mettevano in luce per un verso le debolezze intrinseche, e per l’altro le profonde ingiustizie ed il venir meno della democrazia (ad onor del vero, sin dal 1933, Harold Laski, un coriaceo e scorbutico laborista di sinistra che riuscì a litigare anche con Attlee, fu il primo a parlare di Democrazia in crisi riferendosi all’Inghilterra del primo dopoguerra ed alla crisi del ’29, analizzando la frattura tra democrazia formale e capitalismo liberista). Nel dibattito culturale e politico degli ultimi decenni, queste critiche, che conosciamo bene e che non occorre qui elencare, sono sostanzialmente rimaste confinate all’interno di ambiti intellettuali ed accademici, trovando ben limitata espressione ed incidenza politica.

Da un lato l’orgia anti-ideologica faceva venir meno anche in gran parte delle forze di sinistra i riferimenti alle radici culturali del pensiero politico (in sostanza veniva meno la capacità o volontà di porre in relazione la prassi politica con un’idea di società), e le capacità riformatrici del dopoguerra scadevano nel cosiddetto riformismo della fine del secolo scorso, e dall’altro trovava campo libero la nuova ideologia delle società industriali di fine millennio, basata sul concetto di modernità come necessario adeguamento di politica, cultura, scienza, tecnologia alle scelte di finanziarizzazione e globalizzazione del capitalismo.

Queste scelte hanno reso la politica incapace di orientare o controllare trasformazioni ed equilibri sociali ed ambientali, i cui processi decisionali si trasferivano altrove, vanificando la democrazia e rendendo il lavoro una variabile dipendente, delocalizzabile e marginalizzabile a seconda delle opportunità, spezzando il rapporto tra crescita dei salari e crescita della produttività che era stato alla base dello sviluppo economico e sociale tra l’immediato dopoguerra e gli anni ’70, riducendo progressivamente l’incidenza delle paghe sul reddito complessivo delle società industriali, ed aumentando a dismisura il rapporto tra i salari operai e le retribuzioni dei vertici della tecnocrazia finanziaria ed industriale. Il welfare come diritto sociale è stato pesantemente ridimensionato e/o trasformato in assistenzialismo senza diritti, e gran parte della sanità è divenuta business privato.

Eppure, vi sarebbe ben stata ragione di riprendere in mano i fili di ragionamenti riformatori, ponendo in atto misure di riequilibrio sociale e fiscale, riassegnando agli Stati la funzione di tutelare l’interesse dei più. La crisi del 2007 avrebbe dovuto insegnare come un capitalismo finanziario privo di vincoli abbia rischiato di distruggere se stesso, e come i costi del suo superamento, ancora non pienamente avvenuto, siano stati pagati dai ceti sociali e dai Paesi più deboli.

In un’Europa priva di Costituzione, articolata su patteggiamenti tra gli esecutivi dei singoli Stati piuttosto che sul confronto tra concezioni politiche (lo stiamo vedendo in questi giorni), dove gli interessi dei più forti prevalgono  asimmetricamente e spesso violando accordi e trattati, ciò è apparso con evidenza ancora maggiore, per la miopia di vincoli di bilancio che, contro ogni logica, hanno concentrato lo sviluppo sulle economie più solide, condannando le altre, non solo perché purtroppo spesso governate in maniera inadeguata, alla stagnazione o alla recessione.

L’ampio diffondersi del disagio sociale ed economico ha interessato intere categorie, generazioni, Paesi, creando disgregazione sociale e condizioni di difficoltà per i processi democratici, sottoposti al logorio delle diseguaglianze, del venir meno della coesione sociale, del trionfo di particolarismi privi di coscienza sociale.  Su questi fenomeni ha prosperato l’irrazionalità antidemocratica dei populismi, parsa a molti l’unica risposta possibile al venir meno della fiducia in una democrazia i cui presupposti sociali ed economici venivano pesantemente intaccati, arrivando a metterne in discussione gli stessi meccanismi ed istituzioni.

Oggi, ci troviamo di fronte ad una nuova emergenza, nei termini delle vite venute meno, dei danni economico-sociali che già si avvertono pesantemente e che non potranno che aggravarsi, e di quelli politici che si iniziano ad intravvedere in termini di contrazione della democrazia (vedi Ungheria).

Certo, il Covid-19 non è il frutto della società industriale, ma appare evidente come i suoi effetti sono stati aggravati dalle scelte compiute nel recente passato, in Italia, in Europa ed in tutto il mondo – persino negli USA – ai danni delle economie più deboli, in termini di riduzione del welfare, di scelte quantitative e qualitative sulla sanità, di mancata riduzione delle diseguaglianze, cui ora si cerca, almeno qui da noi, di porre un doveroso ma parziale rimedio con l’assistenza ad una platea di bisognosi che si è estremamente ampliata, e con la riscoperta del ruolo di amministrazioni comunali dai bilanci resi asfittici. Ma dobbiamo ricordarci che già prima dell’epidemia attuale c’era chi rovistava nei cassonetti o nelle discariche del terzo mondo. E non oso neanche immaginare cosa succederà in Africa o in India se l’epidemia dovesse svilupparvisi con la stessa violenza che stiamo sperimentando in Italia ed in Spagna.

Va detto che, prescindendo dalle posizioni estremiste di coloro che, soprattutto in alcuni Paesi, hanno sottovalutato o sottovalutano sia il pericolo epidemiologico che le conseguenze economico-sociali, o subordinano il primo alle seconde ritenendo di poterne uscire “meglio” e che poi ognuno debba far da sé, la percezione della gravità di questa crisi si sta allargando. E l’evidenza dei fatti fa sì che questa si estenda anche agli ambienti ed ai Paesi più inclini ad assegnare al mercato la funzione di supremo regolatore di ogni equilibrio, per i quali le politiche economiche dei singoli governi e delle istituzioni vanno limitate alla funzione di guardiani del mercato.

In buona sostanza, quasi tutti convengono sulla necessità di misure eccezionali, anche se in deroga ai canoni di un liberismo classico. Ma, per quanto questa convinzione possa essere quasi generale, si scorgono i limiti dell’atteggiamento che sembra prevalere, non solo da parte di chi impedisce la condivisione di azioni e costi, ma anche nel richiamarsi ad un’impostazione che potremmo grossolanamente ricondurre a concezioni ordo-liberiste piuttosto che keynesiane e, più in generale, al tentativo di riavviare l’economia nel segno della prosecuzione delle linee di sviluppo seguite negli ultimi decenni, anziché di ricercare un’inversione di tendenza.

 Secondo questo atteggiamento, la più che certa emergenza economico-sociale è tale da giustificare interventi in debito a carico diretto dei bilanci pubblici, o garantiti da questi; nel timore della paralisi generale dei mercati, si ritiene necessario puntare essenzialmente sull’immettere liquidità nel circuito economico allo scopo di superare la fase più acuta della crisi, per poi riavviare i “normali” meccanismi di mercato, a prescindere dai limiti che questi hanno mostrato nel corso degli ultimi decenni.

Corollario di questa impostazione è che queste misure, consistenti essenzialmente nell’immissione temporanea di liquidità a famiglie ed imprese per consentire alle prime ed alle seconde di superare in un qualche modo le fasi più acute della crisi, siano il più possibile limitate, contenute nel tempo, e comunque, subordinate al non determinare eccessivi effetti inflazionistici generalizzati. E si considera solo marginale la possibilità dell’intervento degli Stati nella sfera economica, attuato direttamente o attraverso autorities, mediante provvedimenti normativi ed interventi di sostegno a fondo perduto o diretti nel capitale delle imprese, dati contro adeguate garanzie.

In sostanza, una volta che una recessione profonda e generalizzata, col conseguente venir meno della domanda, faccia prevedere la paralisi del libero mercato, si ritiene ammissibile -o necessario- che la mano pubblica intervenga a rimetterne in moto il meccanismo bloccato, ma senza che ciò debba comportare un potere di orientamento, controllo e selezione delle priorità, e tantomeno il primato dell’interesse pubblico sugli interessi privati, la cui libera dinamica si suppone che debba e possa essere il motore della ripresa. E lo scontro oggi in atto in Europa verte, in buona sostanza, più sul grado di mutualità e condivisione di questi interventi che sulla loro finalità ultima, che resta pur sempre quella di ripristinare le condizioni preesistenti.

Questa impostazione ha una netta connotazione ideologica di stampo hobbesiano, nella convinzione che il mercato, stabilendo chi premiare e chi punire, deciderà alla fine per il meglio, identificando il bene nella ragione del più forte. Ma prescinde dalla constatazione che, a detta della maggior parte degli osservatori, ci si avvia ad una fase di recessione generalizzata, nella quale il venir meno della domanda globale per consumi ed investimenti, se non corretta da energiche politiche di investimento pubblico, non potrà che deprimere anche le economie “forti”.

Modestamente, mi pare necessario molto di più. Immettere liquidità nel circuito economico è necessario, ma non sufficiente. Intanto, questa sarebbe in ogni caso una misura temporanea e non sostenibile su un arco temporale che superi il momento più acuto dell’emergenza sanitaria ed economico-sociale. Né sembra facile che le economie dei singoli Paesi, affidate alla “mano invisibile” del mercato, possano riprendersi in tempi ragionevoli, e che possano farlo senza l’aggravio ulteriore di diseguaglianze e disparità (a prescindere dal fatto che si tratti di individui, gruppi sociali, stati, e ben oltre quanto sia già avvenuto negli ultimi decenni), con le conseguenze che sappiamo sul piano sociale e della tenuta dei sistemi democratici.

C’è da considerare che non si dovrà far fronte solo agli aspetti quantitativi di una recessione globale e della conseguente disoccupazione e contrazione dei consumi. E’ logico supporre che assisteremo anche ad importanti mutamenti qualitativi della domanda che, nel quadro di una generale contrazione di investimenti privati e consumi, verrà a concentrarsi su quelli primari ed indifferibili, ed è quindi logico supporre che, almeno nel breve periodo, vi saranno settori più colpiti di altri. Si renderà quindi necessario che i governi operino, in debito, per:

–   creare una forte domanda aggiuntiva in termini di investimenti pubblici, concentrata su quei settori che sono stati gravemente trascurati negli ultimi decenni: ambiente, infrastrutture, welfare e sanità, sicurezza, istruzione, scienza e cultura, riqualificazione delle aree depresse.

–   agevolare con finanziamenti a tasso simbolico e/o con interventi nel capitale le riconversioni dell’apparato produttivo e dei settori più colpiti dalla crisi che si renderanno necessarie a seguito del mutamento della domanda privata ed a seguito dell’indispensabile incremento della domanda pubblica. Si tratterà di far fronte ad una più che notevole riconversione degli apparati produttivi, paragonabile a quelle dei periodi postbellici da industria di guerra ad industria di pace, che niente potrà sostenere se non l’intervento di programmazione, controllo ed investimento dello Stato.

La generica immissione di liquidità a famiglie ed imprese non può essere che una misura emergenziale, necessaria nell’immediato ma, oltre che non sostenibile nel medio-lungo periodo, risulterà inutile e dispersiva ai fini della ripresa produttiva, se non accompagnata da misure strutturali tali da riavviare gli apparati produttivi in termini adeguati ad una realtà del tutto nuova. In altre parole, superata la prima emergenza, ad evitare che si debba poi procedere a salvataggi a catena, piuttosto che finanziare la disoccupazione, sarebbe preferibile finanziare investimenti capaci di determinare occupazione e di riadeguare la dotazione di servizi e di infrastrutture.

Ciò comporta necessariamente l’imboccare una strada che non si limiti ad invertire concezioni classicamente liberiste, che d’altra parte nessuna persona di buon senso ritiene praticabili; ma che corregga alla radice i dogmi di una cosiddetta “economia sociale di mercato” di fatto piegata alle esigenze dei più forti. Non basta che la mano pubblica stabilisca regole o, in via eccezionale, provveda ad interventi tali da assicurare un funzionamento del mercato formalmente corretto; ma, in vista dell’interesse comune, è indispensabile che l’intervento pubblico definisca e programmi le priorità, e che operi direttamente attraverso politiche di investimento, di spesa, e di redistribuzione adeguate in entità ed in qualità.

A mio modesto parere, questa non è una scelta ideologica ma, anche se al prezzo di spinte inflattive, una necessità di tenuta sia economica che sociale, con la quale tutte le società industriali dovranno fare i conti; ed è al tempo stesso la premessa per un loro più equilibrato sviluppo e per ripristinare le premesse materiali della democrazia in termini di lavoro, equità, sicurezza e tutela sociale.

 Imboccare una strada di questo tipo, che ovviamente comporta una maggior presenza dello Stato nell’economia, porta con sé l’allargamento della sfera di influenza degli esecutivi politici e tecnici; perché ciò non si trasformi in tecnocrazia autoritaria, occorrono maggiori partecipazione e controllo democratico; la democrazia, oltre che sulle sue premesse sociali, richiede una politica all’altezza della situazione, capace di responsabilizzare razionalmente i governati e di assicurare la partecipazione popolare, e necessita sia del pieno funzionamento delle istituzioni democratiche nazionali, che della vitalità di quelle territoriali e dei corpi sociali intermedi. Va rivitalizzato il ruolo delle amministrazioni e comunità locali che hanno subito i tagli orizzontali della spesa, va riscoperta ed estesa la tradizione del municipalismo, va dato maggior riconoscimento ad un volontariato che sta dando prove egregie. Ed è necessario alla democrazia che il dibattito e la decisione politica si sviluppino per via del confronto tra partiti politici aperti alla partecipazione ed alla discussione interna, non ridotti ad essere gli strumenti del cursus honorum delle rispettive caste, ma che vogliano e sappiano interpretare e proporre razionalmente e con metodo critico, sia pur da punti di vista diversi, l’interesse generale.

               Occorre che il confronto politico, analogamente a quanto -duramente, ma sempre tenendo conto il comune interesse- avvenne negli anni del dopoguerra e della ricostruzione, si sviluppi nella realtà dell’oggi attorno ai grandi temi delle complessità e dei limiti della società moderna, del ruolo di scienza e tecnologia, della tutela di libertà e diritti individuali e sociali, della riduzione delle diseguaglianze sociali, dello sviluppo di una democrazia compiuta e dei suoi strumenti. Oggi e nel prossimo futuro si dovrà por mano ad una nuova ricostruzione: se non vi saranno macerie materiali da sgomberare e sostituire, ve ne saranno di umane ed economico-sociali che, pur se prodotte da un evento eccezionale, risultano aggravate dalle fragilità e dalle instabilità intrinseche al percorso di sviluppo avviato ormai da diversi decenni.

Occorre combattere i populismi che corrodono la democrazia dal suo interno utilizzando gli strumenti che la stessa mette a loro disposizione. Non c’è alcun bisogno dello sciacallaggio demagogico che vediamo in questi giorni, metodicamente operato da parte di chi non ha nulla da proporre se non l’incitazione al ribellismo irrazionale, distorcendo notizie e dati per far leva sulle paure delle persone o sbandierando proposte miracolose quanto irreali, di chi persegue indifferentemente ed incoerentemente qualsiasi via possa essere utile a guadagnare qualche punto nei sondaggi d’opinione. Né c’è alcun bisogno delle velleità individuali e partigiane di chi critica un giorno la durezza delle misure adottate ed il giorno dopo ne denuncia l’insufficienza, di chi lamenta la mancata condivisione delle scelte mentre plaude all’assunzione di poteri dittatoriali ed all’imbavagliamento della stampa da parte di un demagogo nazionalista, o ancora di chi contesta la carenza dei mezzi e delle risorse messi a disposizione dopo aver per anni sostenuto lo smantellamento dei meccanismi pubblici di protezione sociale e sanitaria.

A tal proposito, e per venire al dibattito oggi in corso in un’Europa nella quale il processo democratico si ferma ad un Parlamento vuoto di poteri, l’imboccare questa strada non va visto come la richiesta dei Paesi meno solidi dal punto di vista economico-finanziario di ottenere l’aiuto dei Paesi più forti, ma quella, e nell’interesse comune, di trasformare profondamente metodi, obbiettivi e, quando sarà possibile, istituzioni di un’Europa che non ha una Carta Costituzionale. Altrimenti, non resterà altro che considerare l’Europa come, nella migliore delle ipotesi, una sorta di unione doganale e l’euro una moneta di conto senza cambio fisso. Ma, in questa discussione, non si può non osservare l’abisso che passa tra un premier che ha affrontato la questione con determinazione e con toni forti ma argomentati, utilizzando anche strumenti considerati irrituali quali il rivolgersi direttamente alle opinioni pubbliche di altri Paesi, credo conquistando rispetto e adesioni, e l’inutile e dannosa polemica di chi, in vista del proprio tornaconto, appare più soddisfatto delle chiusure di altri Paesi che delle (modeste) aperture.

Del primo atteggiamento, si può solo dire che era ora; del secondo, che non ce n’è alcun bisogno.

Concludendo, una nota di moderato ottimismo e di orgoglio non nazionalistico: mi sembra che potremo superare la crisi se saremo capaci di adottare politiche e comportamenti adeguati, e se sapremo, all’interno di società complesse, riconsiderare priorità e modelli di sviluppo. In questo, mi sembra che la parte migliore dell’Italia non sia affatto indietro: ci auguriamo che ciò continui.

 

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