GENOVA: TUTTE LE RESPONSABILITÀ

di enzo palumbo

Mentre scorrevano sugli schermi televisivi o sulla rete le immagini della tragedia che si era appena consumata sull’autostrada A10 di Genova, i primi sentimenti sono stati quelli dello sgomento per un evento che nessuno immaginava possibile e dell’indicibile dolore per le vittime degli errori umani che ne avevano causato la morte e della tragica fatalità che le aveva coinvolte proprio quando la loro mente andava alla meta che si apprestavano a raggiungere, alla vacanza che stava per iniziare, ai familiari e agli amici con cui dovevano riunirsi, agli impegni cui dovevano attendere.

Ed è naturale che, subito dopo, il sentimento dello spettatore si sia volto all’individuazione istantanea dei responsabili dell’immane tragedia, perché il sommo livello dell’ingiustizia sofferta dalle vittime porta a offuscare la capacità di riflettere e distinguere, specie se c’è chi prova a soffiare sul fuoco dell’indignazione per raccogliere i frutti umorali del consenso popolare propiziato da eventi di questa straordinaria portata.

Il giorno dei funerali, quello pubblico e quelli privati, è stato poi il momento della commozione, nel ricordo delle tante vite spezzate, delle tante aspettative infrante, degli adulti che non avrebbero mai più coltivato le loro attività e corrisposto ai loro affetti, dei giovanissimi ai quali era stata sottratta la speranza nel loro percorso di vita.

Ora, quando cominciano a raffreddarsi le ceneri infuocate dell’indignazione e del dolore, si è cominciato a riflettere, sine ira ac studio, sulle responsabilità che hanno portato a questa tragedia, e anche su come sia possibile evitare che altre ne accadano in futuro, pur consapevoli che l’umana fallibilità di ogni nostra condotta ci ammonisce che le tragedie hanno sempre accompagnato il cammino dell’umanità, e che poche volte sono servite ad evitarne altre.

Parlo di responsabilità, che vanno indicate al plurale, proprie perché ce ne sono di varia e diversamente articolata natura, piuttosto che una sola omnicomprensiva, come sin qui istintivamente si è portati a pensare.

C’è intanto, indubitabile, una responsabilità civile oggettiva che nasce dal fatto che la società concessionaria ASPI esercita la custodia di quell’autostrada, per cui deve comunque rispondere (art. 2051 c. c.) di ogni fatto che procuri ad altri un danno ingiusto (art. 2043 c. c.), salvo che non provi l’esistenza di un qualche caso fortuito o forza maggiore (p. e. un terremoto) che sia talmente significativo da interrompere il nesso di causalità tra il fatto e il danno, cosa che nella specie appare impossibile anche solo da ipotizzare.

Si tratta di una responsabilità che deve necessariamente coprire tutto l’arco delle conseguenze, dirette e indirette, dalla ricostruzione del ponte al risarcimento per vittime, feriti e familiari, sino ai danni e ai disagi subìti dai cittadini costretti a lasciare le loro case (su cui quel viadotto è stato irresponsabilmente costruito, senza prima espropriarle ed abbatterle), e dagli operatori economici del porto e della città, per gli aggravi di costi derivanti dalla rottura territoriale.

Avrebbe quindi fatto bene l’amministratore delegato di ASPI, nella sua conferenza stampa di sabato, dopo avere offerto le sue tardive scuse, a non mettere alcun limite, neppure sommario e provvisorio, all’ammontare dello stanziamento destinato a coprire la responsabilità oggettiva della società, che già oggi prescinde dalle ulteriori e diverse responsabilità, sulle quali è invece giusto invocare l’attesa per gli accertamenti che dovranno individuarle.

Un minimo d’intelligenza comunicativa avrebbe dovuto consigliare di non fare alcuna cifra, quale che ne fosse la dimensione, che in quest’atmosfera sarebbe comunque apparsa incongrua, e affermare invece che ASPI si sarebbe fatta carico di tutte le conseguenze della tragedia, a prescindere dall’accertamento delle responsabilità penali; avrebbe così anche evitato al politico di turno di sfruttare l’occasione, definendo come “elemosina” o come “minimo sindacale” quello che è chiaramente solo l’inizio di una posta passiva destinata a implementarsi in termini esponenziali nei futuri bilanci societari.

E poi ci sono le responsabilità penali, dei singoli individui e quindi anche, ma non solo, dei vertici di ASPI, che, nonostante le grida scomposte di chi invoca di impiccarli subito ai pennoni più alti, vanno accertate con rigore nelle sedi a ciò destinate, che non sono né i comizi improvvisati, né i commenti sui social network, né il sistema della comunicazione mediatica con le sue comparsate televisive, e neppure le iniziative parlamentari, perché in uno Stato di diritto, qual è ancora il nostro, ogni responsabilità penale è personale (art. 27, comma 1, Cost), e va accertata, attraverso un giusto processo celebrato in tempi ragionevoli, nel contraddittorio tra le parti, davanti a un giudice terzo e imparziale, con provvedimento motivato ed impugnabile (art. 111 Cost.), sino alla pronunzia di una  sentenza definitiva (art. 27, comma 2, Cost.).

Ed è su questo tipo di responsabilità che dovranno cimentarsi tutte le perizie, amministrative, tecniche e penali, disposte da chi di competenza, e che dovranno rispondere alle classiche domande della regola inglese delle cinque W (who, what, when, where, why; chi, cosa, quando, dove, perché), che coinvolgono tutti gli organismi societari e tecnici che erano delegati alla gestione e al periodico controllo della struttura, che, dopo cinquanta anni, andava sostituita piuttosto che riparata, come ormai si dovrebbe fare con tutte le consimili opere realizzate in cemento armato, un materiale questo che, com’è noto da decenni, dopo qualche tempo, interagendo coi fattori climatici e ambientali, inizia a degradare sino al collasso.

Si tratta di indagini lunghe, complesse e difficili, che non possono esaurirsi nelle superficiali affermazioni che possono leggersi in questi giorni sui social, e che sgorgano dalla rabbia e via via  la alimentano, piuttosto che dalla ragione.

E tuttavia, mentre questo processo di accertamento andrà svolgendosi, verranno in discussione anche altre responsabilità, di diverso tipo, cominciando da quelle amministrative, in particolare degli organi ministeriali che hanno steso quei contratti, costringendo ora gli interpreti a dibattersi tra varie ipotesi di revoca o decadenza, che, contro ogni elementare logica giuridica, potrebbero entrambe rivelarsi molto costose per l’Erario.

Quando invece sarebbe bastato introdurvi una previdente clausola risolutiva espressa (art. 1456 c. c.), almeno per i casi di gravissima inadempienza resa palese da un collasso dell’opera, di per sé chiaro indice di insufficiente manutenzione straordinaria e di omessa vigilanza a salvaguardia della sicurezza dei cittadini, moralmente doverosa, prima che giuridicamente obbligatoria, quando si esercita un’attività che è per definizione pericolosa (art. 2050 c. c.), con conseguente presunzione di responsabilità.

Per non dire della responsabilità (anche penale) di chi, nel Ministero competente, anche sulla base della concessione in essere, ha negli anni omesso di vigilare, come avrebbe potuto e dovuto, sugli obblighi di manutenzione ordinaria e, soprattutto, straordinaria della società concessionaria.

Ci sono poi, a monte, le responsabilità essenzialmente politiche di chi, sul finire degli anni novanta, ha deciso di trasferire la maggior parte della rete autostradale dall’inefficiente gestione pubblica dell’IRI alla gestione privata, senza tuttavia prima assicurarsi che vi fosse in quel settore di mercato un’effettiva concorrenza, trasferendola a pochi monopolisti, che spesso l’hanno poi pagata  coi proventi dei pedaggi, infine ottenendo di volta in volta, dalla debole mano pubblica, incredibili proroghe che travalicano la vita di più legislature e di altrettanti governi.

Il fatto si è che quando, nella seconda metà degli anni novanta, è stato attivato il processo di privatizzazione che ha interessato tutte le grandi imprese pubbliche allora detenute e mal gestite dallo Stato attraverso l’IRI, non si è pensato di accompagnarvi un contemporaneo processo di liberalizzazione nel mercato di ciascun settore, mettendo in concorrenza gli operatori che intendevano subentrare allo Stato, e invece preferendo affidarsi a pochi e referenziati gruppi, che hanno finito per sostituire al monopolio statale, di cui si era sperimentata l’inefficienza, una sorta di oligopolio privato che, proprio per essere tale, è divenuto anch’esso inefficiente, oltre ad apparire odioso all’opinione pubblica, che invece col monopolio pubblico è ben più indulgente.

Siamo quindi giunti al punto in cui quest’immane tragedia rischia di propiziare un ritorno alla gestione pubblica della rete autostradale, invece di spingere verso la trasparente competizione tra più operatori privati, che sin qui è mancata e che è destinata a latitare sempre di più, se è vero che la parola “concorrenza”, nel c. d. “contratto di governo” compare solo tre volte.

La Direttiva UE c. d. Bolkestein sui servizi (2006/123/CE) è stata recepita in Italia solo nel 2010 (D. Lgs. 59-2010), e la sua attuazione è stata da ultimo rinviata al 2020 con la legge di bilancio del 2018 (L. 205-2018); quella successiva 2014/24/UE) è stata recepita solo nel 2016 (D. Lgs. 50-2016), e soffre di così tante eccezioni da farla diventare praticamente inutile.

Ed è singolare che la discussione pubblica in materia si sia spesso incentrata sulle concessioni di basso livello (come quelle dei tassisti, delle spiagge o dei bancarellari), e abbia invece trascurato  quelle realmente significative come i servizi autostradali, le cui concessioni sono state nel frattempo prorogate sino a date avveniristiche (nel caso di ASPI, prima dal 2018 al 2038, e, da ultimo, sino al 2042) con la scusa di una efficientizzazione del servizio che, come si è visto, non c’è stata.

Almeno per una volta, a seguire le direttive europee, e quindi mettendo a gara le concessioni dopo le loro prime scadenze, si sarebbe evitata la formazione di un quasi-monopolio privato sulla rete autostradale italiana (circa 6.000 km), oggi dominata da due gruppi societari (ASPI per quasi 3.000 km, e Gavio quasi 1.200 km), e si sarebbe favorita la concorrenza e quindi anche il miglioramento dei servizi autostradali e la riduzione dei pedaggi.

E viene da pensare che, forse, un po’ di rispetto in più per l’Europa e per le sue direttive, e anche qualche anima liberale in più in tutti i governi, di centro-destra e di centro-sinistra che nel tempo si sono succeduti, e magari anche qualche affarista in meno, sono tutte cose che avrebbero potuto segnare la differenza, facendo comprendere, anche ai sedicenti sostenitori della rivoluzione liberale tanto sbandierata quanto inattuata, che privatizzazioni e liberalizzazioni non sono la stessa cosa, che le prime senza le seconde possono essere un rimedio peggiore del male, e che la concorrenza con gare virtuali e non competitive è un ossimoro insopportabile.

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