CHI DAVVERO DA’ I NUMERI

di giovanni vetritto

 La polemica che si è innestata sulla questione dei “numeri” forniti dal Presidente dell’INPS Tito Boeri per la formulazione del “decreto dignità” rivela la voragine di inconsapevolezza delle cose istituzionali in cui sono caduti ormai non solo i politici, ma anche i giornalisti e più in generale gli osservatori della cosa pubblica.

Il caso però può fornire l’occasione per rimettere in ordine qualche concetto utile perché nel dibattito pubblico si torni a sillabare i temi istituzionali in maniera meno rozza.

Il primo punto da mettere in luce è che, quando un attore politico eletto arriva a dirigere una grande branca dell’amministrazione pubblica, deve certamente realizzare gli obiettivi che ha promesso di perseguire in campagna elettorale; ma si troverà a dover decidere anche una miriade di questioni, di dossier aperti presso le diverse direzioni generali di quella branca stessa, di cui al momento dell’elezione nemmeno sospettava l’esistenza. Per questo il politico ha, per espressa disposizione di legge, degli “uffici di diretta collaborazione” che lo coadiuvano in queste scelte.

Quindi il rapporto che deve esistere (meglio; l’unico possibile) tra politico (e rispettivo entourage) e alti vertici amministrativi non può che essere quello del confronto continuo su mezzi e fini dell’agire amministrativo.

In molti casi, la decisione camminerà attraverso un dialogo che dall’alto della politica va verso il basso della verifica dei vincoli di razionalità delle scelte da parte delle burocrazie professionali. Vincoli giuridici, finanziari, economici, sociologici, di realtà. Altre volte (per dir meglio: magari non nelle scelte politicamente più appariscenti, ma di certo molto più spesso) saranno i vertici amministrativi a portare all’attenzione del vertice politico (ministro e ufficio di staff) dossier, opzioni di policy, decisioni da assumere, scelte da intestarsi, determinazioni cui dare copertura politica, informazioni sull’azione amministrativa, sulle quali, per quanto di stretta competenza della dirigenza, la politica deve pur essere informata ex ante.

Qualsiasi straccio di teoria della burocrazia, senza scomodare i mostri sacri di un secolo e mezzo di scienza dell’organizzazione, funziona così.

L’alta dirigenza, sia quella che i padri nobili dello Stato liberale volevano imparziale e inamovibile, assunta per concorso e non per spoglie (merit system contro spolis system), sia quella, di più recente fortuna, scelta per rilievo pubblico tra esperti la cui opinione è rilevante nel partito politico di appartenenza o nel dibattito pubblico, deve dunque preparare il cosiddetto decisions setting: l’istruttoria delle decisioni da assumere, con relativi “numeri”, alternative operative e di policy, suggerimenti di azione e di drafting normativo, senza nascondere ma anzi motivando adeguatamente e responsabilmente la scelta che considera preferenziale e che si sente di suggerire al politico.

Nel far questo, l’alta dirigente diviene un Oracolo di Delfi, o una sorta di anima eterea priva di vissuto personale, propria cultura politica, storia professionale e intellettuale, valori e saperi del corpo burocratico di appartenenza (quando un a identità solida ci sia: la Ragioneria generale, i Prefetti, gli Ambasciatori…)? Certo che no.

Infatti proprio qui sta lo specifico professionale dei vertici dei corpi burocratici. Serve managerialità, certo, come vogliono trent’anni di riforme (piuttosto sbilenche) delle norme che ne regolano il rapporto di servizio; ma anche sensibilità politica, assoluta lealtà a indirizzi politici anche non condivisi, rapidità nell’intercettare voleri e inclinazioni del politico di riferimento (troppo spesso ogni ministro fa storia a sé, e non c’è obbedienza di partito o programma di governo che tenga), fornendo rispetto ad essi ogni informazione, precedente, dossier per coincidenza già aperto, norme in vigore, “numeri”. E occorre dire sempre, in scienza e coscienza, come si ritiene più funzionale decidere e perché, senza nasconderne le ragioni sia obiettive che soggettive.

Le cose vanno in questo modo? Questo che, ripeto, è l’unico modo possibile?

Certamente no.

Da decenni si è creata tra politici e rispettivi entourage (da una parte) e alta dirigenza (dall’altra) una frattura irrazionale e dannosa.

Gli alti burocrati hanno certo interessi di carriera, preferenze di corpo, orientamenti di continuità delle politiche che la politica è chiamata a verificare e, se ritiene, capovolgere. È facile? No. È faticoso? Si. È evitabile? No.

Hic Rhodus, hic salta.

Questa paziente fatica del governare è ormai vissuta con stanchezza e fastidio da una classe politica che pare voler vivere solo dell’autoreferenzialità del dibattito al suo interno, sviluppato nelle aule del Parlamento su testi normativi (quando non in risse televisive combattute a colpi di slogan).

E l’execution? Chi esercita, in queste condizioni, il potere “esecutivo”?

Di qui nascono diffidenze, incomprensioni, leggende di “manine” notturne”, smentite di “manine” notturne (sempre esistite), cartelline approvate in consiglio dei ministri senza nessun foglio dentro, fastidio per i burocrati più autorevoli, attivi e fantasiosi, apprezzamento per quelli che “non si mettono di traverso” (attenzione: anche quando il politico rischia di schiantarsi su un muro).

Un legislatore fantasioso anni fa decise di scrivere delle norme ridicole in cui il politico decide il “cosa” e l’alto burocrate decide il “come”; un bozzetto assolutamente implausibile: come può il politico decidere il “cosa” sui mille dossier che ignora? Come può un burocrate decidere il “come” senza accertare che quella procedura abbia rilevanza politica?

(Posso testimoniare di persona di un ministro che molti anni fa, in ragione della sua storia professionale, per ragioni di immagine chiese che l’Ufficio adottasse una più lunga e irta procedura aperta per un’asta pubblica, laddove le norme consentivano una più celere ed efficace procedura ristretta secretata; per dire quanto “politico” possa essere il famoso “come”).

Eppure oggi non è nemmeno più così, a questa “distinzione” (o “separazione”) è seguita una totale incomunicabilità da film di Antonioni.

I Capi dei Dipartimenti stentano a vedere di persona il Ministro in riunioni adeguate per tempo e attenzione; i loro direttori generali sono quasi certi di vederlo solo per gli auguri di Pasqua e Natale; gli staff hanno una loro razionalità “di branco”, fanno da filtro e da gatekeeper del Ministro, al punto che spesso non si ha certezza se il politico abbia tutte le informazioni del caso; regna la diffidenza, il rapporto umano è spesso azzerato, le email sostituiscono un confronto sereno nel merito delle proposte e delle decisioni.

In questo quadro, il “caso Boeri”, qualunque si debba rivelare la ricostruzione esatta delle cose, è solo la spia di un andazzo istituzionale che non può produrre buone politiche e che è destinato a moltiplicare incomprensioni e incidenti.

Quando eravamo bambini, e si litigava tra fratelli, le mamme erano solite infliggerci la punizione di pulire assieme una porta a vetri di casa, ciascuno da una delle due parti. Si iniziava scuri in volto e presi dal rancore per l’altro, ma si finiva regolarmente per riappacificarsi senza volerlo, tra una boccaccia e uno schizzo di vetril. Ebbene, nei Ministeri le porte a vetri non mancano. Ricominciamo pazientemente dalla saggezza delle mamme.

 

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