LA FUORIUSCITA DALLA CIVILTA’ CLASSICA

  di paolo fai

Anche se incredibile, pare sia vero che Matteo Salvini abbia fatto il liceo classico. In tutta evidenza, ha male appreso i valori fondamentali della cultura greca, che dell’ospitalità e dell’accoglienza facevano la loro gloria e il loro motivo di vanto.

Non invito il vicepremier e ministro degli Interni a leggere, se non lo ha fatto al liceo, il canto VI dell’Odissea, con l’episodio della giovane Nausicaa che, davanti al malconcio Odisseo naufrago, non esita a condurlo al palazzo, dal padre Alcinoo, il re dei Feaci, promettendogli ospitalità. La lettura resta un’attività solitaria e per niente populistica, che non scatenerebbe lo tsunami del web. Attento come è alle reazioni dei social, Salvini farebbe bene, allora, a scendere a Siracusa, dove in questi giorni, al Teatro greco, vengono messe in scena, per il 54° ciclo delle rappresentazioni classiche organizzato dall’Inda, l’Edipo a Colono di Sofocle e l’Eracle di Euripide, in cui, dopo i protagonisti omonimi delle due tragedie, campeggia Teseo, il leggendario re di Atene.

Contro la contraddittorietà delle vicende umane, da cui è assente qualsiasi principio ordinatore, ragione o dio, lo si chiami come si vuole, Euripide, nell’Eracle, addita il “senso” della vita nella solidarietà umana, nel sentimento del synalgéin (“ma io sono venuto per condividere il tuo dolore”, v. 1202), della ‘compassione’, che Teseo esprimerà quando, vedendo l’amico Eracle – che aveva ucciso la moglie e i figli – avvolto in un mantello, chiederà perché stia coi pepli attorno alla testa. E Anfitrione dirà, per lui, “che si vergogna della tua vista, della tua amicizia di parente, del sangue dei figli uccisi”. Teseo, l’Ateniese illuminato, supererà, con la semplicità dei generosi, le angustie e i tabù dell’antica “cultura della vergogna” e del míasma, chinandosi sull’amico sofferente, e, confortandolo a sopportare quest’altra, suprema prova, lo inviterà a seguirlo «nella città di Pallade», l’ospitale Atene.

Nell’Edipo a Colono, dopo avere raccontato al Coro degli Ateniesi la sua dolente storia, Edipo protesta più volte l’involontarietà del suo gesto delittuoso, sottolineando lo stato di necessità e di legittima difesa in cui fu consumato l’assassinio di Laio, che – è bene precisare – egli ignorava fosse suo padre. Il coro dei vecchi Ateniesi, pur ignaro del beneficio che l’accoglienza del vecchio eroe potrà portare ad Atene, dimostra una pietà che, ancor prima che di carattere religioso, sembra di carattere umano, a riprova dell’umanità della Città. Tale atteggiamento collettivo troverà la sua conferma subito dopo nelle parole del sovrano Teseo che, mandato a chiamare da un messo, quando si trova davanti allo stato miserevole di Edipo e Antigone, dichiara: “Dovresti propormi una richiesta inaudita perché mi tirassi indietro. Non ho dimenticato di essere stato, nella mia fanciullezza, esule come te e di aver affrontato, come nessun altro, e a rischio della vita, ogni sorta di cimenti in terra straniera. Perciò non posso esimermi dal soccorrere uno straniero, quale ora sei tu; e del resto so bene di non essere che un uomo: non c’è attimo del domani che appartenga più a me che a te” (vv. 560-568).

Venga al Teatro greco di Siracusa, ministro Salvini; chissà che, tra un bagno di folla, una selva di fischi e mille selfie, la Parola dei classici non operi il miracolo della catarsi e la renda meno sovranista e più accogliente!

                                                                                                      

 

 

3 commenti su “LA FUORIUSCITA DALLA CIVILTA’ CLASSICA”

  1. Gentile Paolo Fai, a parte le arcaiche leggi non scritte dell’ ospitalità, mi sembra di ricordare che nella Grecia classica i meteci non assursero mai al rango di cittadini della polis, neanche nella democratica (e imperiale) Atene. E sì che non si trattava di “barbaroi”, ma di semplici “xenoi” che appartenevano alla comune cultura dell’Ellade. Che dire, poi, dell’ usanza di “ospitare” stranieri nei campi e nelle miniere in qualità di schiavi? E di Aristotele che nella Politica cita in parte le parole dell’ Ifigenia euripidea: “E’ giusto, madre, che i Greci comandino sui Barbari, ma non che i Barbari comandino sui Greci: i Barbari sono schiavi, i Greci sono liberi”? D’accordo: in seguito le filosofie e le religioni ellenistiche elaboreranno il concetto di “cittadino del mondo”, ma insomma la questione è più complicata di quello che potrebbe sembrare.
    P.S. A proposito del presessantotto: sono convinto che anche i Rokes svolsero una loro importante funzione.

    1. Gentile Francesco, grazie, intanto, per il suo commento, a prescindere. Per entrare nel merito delle sue giuste eccezioni al mio scritto, le rispondo subito che non dobbiamo mai commettere l’errore di valutare comportamenti che per noi sono discriminatori con quello che era lo “spirito del tempo”.
      La democrazia ateniese era una democrazia ‘esclusiva’, riservata ai nativi ateniesi (Pericle, l'”inventore” della democrazia, fece approvare una legge, nel 451/50 a.C., per la quale erano cittadini ateniesi i nati da padre e madre ateniesi – quindi, restrittiva) e solo in casi eccezionali veniva concessa ad appartenenti ad altre comunità (ai Samii, nel 404 a.C., sul finire della Guerra del Peloponneso).
      La democrazia ateniese non è certo un modello esportabile. Noi moderni, sul piano dei princìpi, l’abbiamo ampiamente superata (la nostra è ‘inclusiva’ e aperta all’emergere di nuovi diritti e di nuovi chiedenti diritti). E però, quando sostengo che l’ethos dell’ ospitalità, che s’incarna al suo massimo grado nell’epiteto “Xénios” che veniva affiancato a Zeus, padre degli dèi e degli uomini, è categoria fondativa della società greca (si pensi al contrasto, nell’Odissea tra l’ospitalità di Nausicaa ed Alcinoo verso Odisseo, rispetto alla ferinità del Ciclope Polifemo, che ignora del tutto cosa sia l’accoglienza), ho le mie ragioni. Infatti, anche i “bàrbaroi”, quando arrivavano in terra greca, erano “xénioi”, ‘stranieri-ospiti’ (anche se considerati etnicamente inferiori).
      Certo, la società ateniese, sia in democrazia che sotto l’oligarchia, era una società maschilista (le denunce della Medea euripidea sono note al colto e all’inclita), ma non possiamo condannare quella società ex post. Allo stesso modo, racconteremo che la democrazia si applicava – ripeto – agli ateniesi puri, a petto di migliaia di schiavi (“animali parlanti”, per Aristotele) e ai tanti ‘meteci’, cittadini liberi, per lo più imprenditori e artigiani, che giungevano da altre città greche (come il logografo Lisia, il cui padre, Cefalo, era venuto da Siracusa, invitato da Pericle), perché ad Atene potevano lavorare bene e arricchirsi (Lisia finanziò il ritorno dei democratici nel 403 a.C., dopo la breve ma criminale parentesi oligarchica dei Trenta tiranni).
      Il mio invito a Salvini era dunque motivato da ragioni più forti della complessità di cui lei, caro Francesco, scrive.
      Un punto di partenza fondamentale dell'”ideologia” della democrazia ateniese è l’Epitafio di Pericle per i caduti del primo anno nella guerra del Peloponneso contro Sparta. Tucidide ne ha fatto un capolavoro di propaganda politica. Ottimo per avviare il dibattito sulla democrazia antica rispetto a quella moderna.
      Quanto ai Rokes e al clima del preSessantotto, l’influenza di quel gruppo rock inglese non è certo paragonabile a quella esercitata dai Beatles e dai Rolling Stones. Tuttavia, è certo che il loro ‘peso’, tra gli altri ‘complessi’ italiani, fu, assieme all’Equipe 84, tra i più rilevanti.

      1. Grazie per la risposta. Un giorno o l’altro forse ci capiterà di dialogare sui Corvi e sulle loro impossibili cover.
        p.s. Non sono salviniano, ma quando ci vuole ci vuole,

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