lettera su elezioni e pli

di andrea ciandri

Fin dall’ultimo congresso dello scorso anno ho ritenuto errata, perché inspiegabile sotto il profilo politico e ideale, la decisione del PLI di collocarsi nel centrodestra in vista delle elezioni politiche che stanno per celebrarsi, unanimemente condivisa dal congresso.

Come ebbi modo di accennare nel mio intervento congressuale, il centrodestra italiano, se negli anni ’90 pareva orientato in senso latamente liberale, tanto da giustificare l’adesione, in quegli anni e nei primi anni duemila, di molti esponenti del vecchio PLI a Forza Italia (Martino, Biondi, Sterpa), o addirittura ad Alleanza Nazionale (Basini, Pagliuzzi), con il tempo, e con la lunga esperienza di governo di Silvio Berlusconi, si è obiettivamente dimostrato lontano dai principi e dalla pratica liberale.

L’azione di governo del centrodestra italiano non si è mai connotata in senso liberale, neppure quando, nella quattordicesima legislatura, il governo godeva di una maggioranza parlamentare inedita nella storia repubblicana, che avrebbe consentito a Silvio Berlusconi di porre in essere la rivoluzione liberale annunciata nel 1994. Essa sarebbe stata favorita, per altro, da una congiuntura economica europea e mondiale favorevole. Invece il governo Berlusconi adottò una politica economica all’insegna della conservazione: poche privatizzazioni, nessuna liberalizzazione, aumento della spesa pubblica corrente e nessuna drastica riduzione del debito pubblico, come invece era riuscito a fare il precedente governo Prodi.

In compenso, quel governo e quella maggioranza fecero di tutto per attaccare lo stato di diritto con vergognose leggi ad personam e ad personas, o proposte di legge schizofreniche presentate in contemporanea, come quelle, memorabili, sul “processo lungo” e sul “processo breve”. Provvedimenti che hanno tentato di minare i principi cardine dello stato di diritto, quello dell’uguaglianza di tutti di fronte alla legge e del controllo di legalità esercitato dalla magistratura autonoma e indipendente sui vertici del potere politico.

Se a ciò si aggiunge il disastroso bilancio del terzo governo Berlusconi, reso plastico dai dati sulla finanza pubblica e culminato con la famosa lettera da Bruxelles e lo spread a 500 punti base sui bund tedeschi nel novembre 2011, il giudizio che un liberale può dare sull’esperienza politica di questo schieramento politico non può che essere totalmente negativo.

Nulla di liberale il centrodestra ha fatto, e mai vorrà fare, men che mai in tempi come questi, in cui le destre europee, anziché connotarsi in senso liberalconservatore come negli anni novanta, quando spirava un “vento” liberale proveniente dall’Inghilterra di Margaret Thatcher e dagli Stati Uniti di Ronald Reagan, sono oggi piegate su posizioni vetero reazionarie, sovraniste e protezioniste. Il vento che spira oggi è quello del populismo antieuroepo, che in pieno ha colpito anche la destra italiana, ben più radicale di quella sorta nella seconda repubblica.

Ebbene a fronte di questo stato delle cose, vien da chiedersi perché mai il PLI abbia deciso di schierarsi col centrodestra e di condividerne, a detta dei suoi esponenti, la stesura del programma che, di liberale, ha nulla.

È un programma all’insegna dello “spendi e indebita”, infarcito di promesse irrealizzabili e tutte orientate in senso statalista e assistenzialista: più spesa pubblica, più assistenza sociale (“reddito di dignità” e pensioni minime a mille euro, che sono un insulto per chi si guadagna da vivere col proprio lavoro e godrà di una pensione corrispondente ai contributi versati), più spesa pensionistica con la scellerata idea di abolire o rivedere la legge Fornero.

Non una parola sulla riduzione della spesa pubblica, tanto più quella sanitaria e sociale, nonostante si proponga di abolire l’IRAP, con cui si finanzia il servizio sanitario nazionale.

Un centrodestra liberale dovrebbe proporre la privatizzazione della scuola e della sanità con conseguente e successiva riduzione delle imposte, invece si promette di ridurre le imposte lasciando intatto l’indiscusso stato sociale.

La flat tax berlusconiana costerebbe circa 65 mld., secondo i calcoli del prof. Perotti dell’università Bocconi, ma è una falsa promessa, perché impraticabile.

I liberali avrebbero potuto far propria e cavalcare in questa campagna elettorale l’unica proposta seria di flat tax, quella dell’Istituo Bruno Leoni, che prevede l’abolizione di ogni tipo di sussidio pubblico, come la pensione di invalidità e di accompagnamento, sostituiti dall’imposta negativa. Invece si è preferito fare un convegno mettendo sullo stesso piano una proposta seria come quella del prof. Nicola Rossi, con quella di Salvini, che non vorrebbe cancellare nessun sussidio.

Secondo l’analisi fatta dal prof. Perotti, il programma economico del centrodestra porterebbe ad un aumento di spesa pubblica compreso tra 171 e 310 mld di euro all’anno, con una copertura di soli 10 mld, e un conseguente disavanzo oscillante tra 161 e 300 mld.

Un vero liberale non potrebbe mai sottoscrivere un tale programma. Ma nella penosa e indecorosa lettera del 28 gennaio scorso, con la quale De Luca e Morandi hanno rivolto ai leader del centrodestra un ultimo straziante appello per ottenere gli agognati seggi, dopo aver tentato invano di “imbucarsi” nella cosiddetta quarta gamba della coalizione, si rivendica l’apporto liberale alla definizione del programma della coalizione, fondata, si osa dire, “su di una visione liberale del futuro comune a tutti i partiti che la compongono”.

Quale visione liberale del futuro può avere un ex comunista padano come Salvini, che dall’estrema sinistra si è spostato all’estrema destra, portando la Lega nel gruppo parlamentare europeo della destra radicale? Quale visione liberale del futuro può avere Fratelli d’Italia, che più che porsi in continuità con l’Alleanza Nazionale di Gianfranco Fini pare essere una riedizione del fu Movimento Sociale. Quale visione liberale ha mai manifestato la Forza Italia di Berlusconi, partito statalista e corporativista che mai ha attuato politiche liberiste, che sui diritti civili ha sempre avuto posizioni reazionarie, che sulla giustizia ha patrocinato leggi lesive dei fondamentali principi di civiltà giuridica?

Cosa c’è di liberale nel proporre più stato e meno mercato, più assistenza sociale e meno tasse? Questo è populismo peronista, non liberalismo.

Un partito liberale serio avrebbe dovuto presentarsi a queste elezioni con un programma alternativo a tutti gli schieramenti e alle tante liste di partiti di estrema sinistra e destra che con i loro simboli compariranno sulla scheda elettorale. Gli italiani potranno scegliere tra tre liste neocomuniste ma non troveranno sulla scheda una lista liberale degna di questo nome. Perché Stefano De Luca non ha mai voluto presentare la lista raccogliendo le firme, non ha mai voluto che questo partito si misurasse con le urne. Ma un partito che non si presenta alle elezioni non ha senso di esistere. Un partito che non si presenta neppure nel comune e nella regione del suo ventennale e indiscusso (e indiscutibile) leader esiste solo come sigla per rivendicare il cosiddetto diritto di tribuna.

Quando non si hanno voti si può solo elemosinare, ed è quello che De Luca, e il suo fido delfino Morandi, hanno fatto in questi mesi, perdendo tempo prezioso per raccogliere le firme e presentarsi con il proprio simbolo e un proprio programma autenticamente liberale. Un programma che avrebbe dovuto essere l’esatto opposto di quello di centrodestra: europeista, liberista, libertario.

Invece la direzione nazionale ha dato mano libera a De Luca di proseguire nei suoi intenti, che sempre sono stati, anche in passato, quelli di racimolare “strapuntini” in Forza Italia.

Ma poiché in politica i regali hanno un costo, l’elemosina delle poltrone comporta la svendita di un nome, di una storia, di ideali. Ed è quello che il duo De Luca – Morandi, con la complicità di una direzione nazionale capace solo di delegare e di un consiglio nazionale silente, hanno ignobilmente fatto, con l’insensata e scellerata decisione di candidarsi nelle liste del partito più estremista, più antieuropeista e illiberale del centrodestra.

La Lega è sovranista, i liberali europeisti, la Lega è nazionalista, i liberali sono patrioti, la Lega è statalista, i liberali sono liberisti, la Lega è protezionista, i liberali sono liberoscambisti, la Lega è tendenzialmente razzista, i liberali sono contro ogni forma di discriminazione, la Lega è reazionaria sui temi etici, i liberali sono progressisti e a favore dei diritti civili, la Lega è giustizialista (in particolare nei confronti degli stranieri), i liberali sono garantisti.

L’accordo con la Lega non può avere alcuna base politica e rappresenta un doppio tradimento nei confronti degli elettori: di quelli leghisti, che non potendo esprimere la preferenza contribuirebbero col loro voto ad eleggere candidati con idee opposte alle loro (o almeno tali dovrebbero essere); di quelli liberali, che per eleggere De Luca, Morandi, Bonfrisco e Basini dovrebbero votare un partito illiberale come la Lega. Ciò rappresenta un vulnus al concetto di rappresentanza, ed è grave che se ne siano fatti artefici proprio i vertici del PLI che, a parole, si sono sempre spesi per difendere la democrazia rappresentativa. Vergogna!

La motivazione addotta alla dissennata decisione di candidarsi con la Lega la rende ancora più grave: che partito è un partito che sceglie la lista in cui candidare i propri esponenti in base alla sola motivazione che è stata l’unica ad accoglierli? Non è forse un partito senza idee, senza progetto politico, e senza futuro?

L’Italia ha uno straordinario bisogno di una forza politica veramente liberale. Ma non basta chiamarsi PLI, e dirsi eredi dello storico e glorioso partito fondato da Benedetto Croce, per essere un partito degno di rappresentare questa eredità culturale, storica e politica. Tanto più se la si insulta come si sta facendo.

 

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