un “vaffanculo” sesquipedale [di G. Vetritto]

di giovanni vetritto

 

1. La genesi

Alla fine ce l’hanno fatta.

I cosiddetti “ragionevoli”, con la loro irragionevolezza, hanno alla fine del tutto screditato la ragionevolezza, la dialettica parlamentare, il buon senso della stabilità e del confronto tra schieramenti in una qualche, variabile misura interni alla logica della liberaldemocrazia.

Perché quando queste nobili caratteristiche, che rappresentano il minimo sindacale indispensabile per cercare di ricostruire, nel medio periodo, una decente dialettica sostanziale di confronto democratico vero, vengono per decenni distorte a coprire interessi aziendali, personali, partitocratici, massonici, nessuno finisce più per vederci quel valore che nondimeno gli resta.

Quando per decenni il bon ton del parlamentarismo viene usato solo per nascondere affari e affaracci, per blindare l’immobilismo di classi dirigenti bollite e ormai senza seguito, per garantire impunità a ogni scelta illegittima, ma anche legittima e non suffragata da un vero sostegno popolare, l’esito è quel gigantesco “vaffanculo” partorito ieri dalle urne, sia stato esso grillino, leghista, fascista, “poterealpopolista”.

Un “vaffanculo”, va sottolineato, che è riuscito perfino ad arginare quella disaffezione alle urne che pareva ormai irreversibile, e che invece ieri è stata stoppata dalla voglia matta di dare un segnale di ormai totale insofferenza.

Per fare un solo esempio, quello macroscopico delle crisi bancarie, se perfino il Presidente dell’Associazione Bancaria Italiana si dichiara favorevole ad appurare l’unica cosa di interesse del cittadino minimamente avvertito, ovvero chi abbia intascato i denari spariti dai bilanci di tante banche e banchette, e la politica decide che non è il caso, una reazione simile è il minimo sindacale da attendersi; fossimo un popolo un po’ più avvezzo alle barricate in piazza, avremmo potuto assistere a ben di peggio.

 

2. I risultati

L’esito elettorale di questo processo è ancora in parte non consolidato, grazie alle assurdità di una legge elettorale se possibile ancora più contorta e meno conforme a Costituzione dell’autoritario “italicum” già caduto sotto la scure della Corte. E fortuna che il mantra del renzismo era “qualunque legge pur di sapere la sera stessa delle elezioni chi sia destinato a governare stabilmente per una legislatura”: quando si è paventata la mala parata di un trionfo grillino, ecco riemergere nel “rosatellum” candidature multiple, voti trasferiti e assegnati pro quota, recuperi proporzionali, listini bloccati e altre amenità, fino a richiedere forse addirittura giorni per avere un quadro davvero definitivo degli eletti.

Al netto di ciò, il senso politico dei risultati è chiarissimo.

Un partito, da solo e senza alleanze, arriva ad essere di gran lunga il primo in parlamento, con percentuali degasperiane senza bisogno di guerra fredda. Incontestabile, ma forse inutile, vincitore della giornata è il M5S, all’insegna di quel “vaffanculo” di cui si diceva dianzi. La candidatura a diventare il fulcro di un nuovo Governo sarà probabilmente ostacolata dal ripetuto e intollerante rifiuto di allearsi o cooperare con chicchessia: puerile dichiararsi disposti a mediare solo dopo aver appurato che conviene. E nondimeno gli elettori non si sono lasciati spaventare e sono accorsi in massa a votare un movimento senza altra bandiera che non l’insofferenza per il potere costituito e per qualsiasi (necessaria) forma parlamentare.

Alla destra, la Lega sfonda, supera FI e diventa l’architrave di una alleanza che risulta per distacco la prima in parlamento. L’ottuagenario leader a casa sua non ha più, né poteva ragionevolmente avere più, il tocco magico; perfino tanti suoi colonnelli, a partire dal dichiaratissimo Toti, sono ormai di fatto più leghisti che “azzurri”. La Meloni conferma uno status da terza forza della coalizione senza, però, beneficiare in maniera sostanziale della montante onda nera europea; che in chiave extraparlamentare raccoglie briciole, ma quantitativamente non banali, per la sua frammentarietà, divisa come era tra Casa Pound e Forza Nuova più altre schegge, laddove coalizzata e magari federata alla Meloni stessa avrebbe alzato il quorum dei postfascisti in parlamento.

Il PD scende al minimo storico, senza più anima, immagine politica né riferimenti programmatici certi, dopo aver inverato per l’intera legislatura i sogni proibiti di Berlusconi, dall’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori fino quasi perfino al Ponte sullo Stretto. E nemmeno la tardiva mascheratura moderata e tranquillizzante, sotto le mentite spoglie di Gentiloni, ha potuto fermare la débâcle. E il giudizio, dal punto di vista ormai quasi implausibile di chi continua a considerarlo un partito di sinistra, diventa ancora più severo se solo si pone mente a quanti parlamentari fatti eleggere sotto quelle insegne da Renzi vengano da storie politiche, abitudini parlamentari, perfino valori politici cristallinamente di destra: da Casini a Padoan alla Bonino a tanti altri.

Nella prateria lasciata libera dal PD, Liberi e Uguali è andato a schiantarsi quasi volontariamente contro l’unico arbusto secco rimasto. Invece di dichiararsi polo attrattivo di un nuovo centrosinistra, per la sinistra “tradizionale”, ma anche per ceti medi riflessivi, elettorato moderatamente progressista e ugualitario, donne e uomini in cerca di moralità politica o anche solo di rispetto per le regole e le prassi di una democrazia ossequiosa dell’etica pubblica, e perfino dei quattro “pazzi malinconici” di ascendenza liberale e socialista e repubblicana e azionista, LeU ha passato mesi di campagna elettorale a fare di tutto per sembrare Rivoluzione Civile; e siccome le cose hanno un senso, di Rivoluzione Civile ha raccolto la percentuale. Non si vede come avrebbe potuto andare diversamente, con buon a pace di non poche candidature “diverse” dalla storia comunista, e perfino vicine a questa testata (ma non in posizione utile per essere eleggibili): da Belli Paci a Somaini all’avvocato anti-italicum Besostri, alla “pettirossa” Fioravante ad Anna Falcone. Un caso più unico che raro di totale insipienza politica e di dilettantismo.

Che a Sinistra, infine, l’esperienza “rosso antico” del Brancaccio, nella consegna del silenzio della stampa e nella estrema ristrettezza della propria visione politica, abbia fatto più di un terzo dei voti presi da LeU con l’immagine della seconda carica dello Stato è solo una notazione di colore, ma che merita segnalazione.

La somma del risultato, a sinistra, è dunque chiara: la classe politica postcomunista da ieri è veramente e finalmente morta, ieri davvero anche in Italia è finalmente crollato il Muro di Berlino.

Nessuna meraviglia, dunque, che intorno si vedano solo macerie: l’importante è che qualcuno si renda conto che è necessario iniziare a ricostruire, su basi del tutto diverse dal passato.

 

3. La partita del Governo.

Siccome la lotta per il potere, come ben sa qualsiasi liberale e come il perbenismo della stampa cerca invano di celare, non conosce vuoti, la mancata vittoria di tutti e di ciascuno “secondo le regole” (QUELLE regole; e ci sarebbe mancato altro) non esclude affatto una pluralità di scenari di possibile governabilità, e perfino di potenziale stabilità pluriennale (seppure magari non di legislatura). Cui si contrappone un solo scenario di vera resa alla chiara volontà degli elettori di non far vincere nessuno se non il segnale di insofferenza per il degrado della politica.

Iniziando da quest’ultimo, che peraltro è quello più raccontato dai giornali, alla luce dei sondaggi, durante il lungo avvicinamento al 4 marzo, le cose son presto dette: un Governo del Presidente (ormai davvero poco plausibile un “Gentiloni bis” prorogato, viste le dimensioni della sconfitta), magari a guida di destra (Roberto Maroni?), per fare in fretta una legge elettorale capace di produrre governabilità, e un celere ritorno alle urne. Si tratta di una prospettiva praticabile, che potrebbe dare un esito desiderabile, come una legge elettorale semplice e civile, maggioritaria senza premi forzati, magari nella forma di un doppio turno uninominale di collegio, senza recuperi proporzionali, pluricandidature e altre scappatoie; oppure potrebbe dare luogo a un esito mefitico, già evocato dopo il primo exit poll da Ignazio La Russa, ovvero un rafforzamento di questa legge immonda con l’aggiunta di un premio di maggioranza che la renderebbe ancora più indigeribile e ancora più anticostituzionale.

Ma veniamo, in un’Italia cui la sete di potere ha ormai cancellato qualunque altra pulsione, agli scenari di possibile governo.

Il primo se lo è lasciato scappare subito Renato Brunetta: alla luce di esperienze passate, Berlusconi e Forza Italia potrebbero aprire la “campagna acquisti” per fare affluire al proprio gruppo parlamentare un numero di eletti sufficiente a procurarsi a posteriori la maggioranza sfuggita, nemmeno di moltissimo, alle urne: e secondo l’ex ministro per questa soluzione ci sarebbe già “la fila” dei “disponibili” (quanti di essi portati nelle Camere da Renzi con la manovra appena criticata?). Scenario plausibile, ma che aprirebbe la strada a una disaffezione ancora maggiore dell’elettorato e a scenari di insofferenza sociale non trascurabili.

Il secondo scenario è quello più evocato in queste ore, soprattutto da stampa e attori sociali che hanno passato l’intera campagna elettorale a predicare una “responsabilità” priva di qualunque minimo connotato politico: una alleanza Lega-M5S, all’insegna della insofferenza per l’UE, del populismo e della demagogia. Uno scenario fosco per qualunque elettore minimamente informato e sensato, ma la cui responsabilità cadrebbe tutta intera sulle spalle di classi dirigenti (non solo politiche) che hanno ignorato sistematicamente per due decenni i segnali di disaffezione per un verticismo e una gestione opaca e autoreferenziale del potere, riaffermati sotto Governi di tutti i colori, fino all’esito deflagrante di ieri.

Resta il terzo scenario. Quello che nessuno racconta; non si sa se perché politicamente non raccontabile oggi, o perché da far balenare dopo contorcimenti e paure dell’elettorato in un periodo più o meno lungo di ingovernabilità; lo scenario di malintesa “responsabilità” che probabilmente tenta le élite oclocratiche dianzi evocate come vere responsabili del “vaffanculo” globale di ieri: quello di una sorta di “Nazareno invertito”, ovvero un Governo di destra, probabilmente orbato dalla Meloni sull’estrema, con il subentro del PD come ruota di scorta, capace di trasformare la minoranza maggiore in vera maggioranza parlamentare.

È inutile dire quanto deleteria sarebbe una simile scelta. Il pessimo establishment nazionale si rinchiuderebbe in un Palazzo d’Inverno indifendibile, rimandando soltanto (e non si sa per quanto) la sua morte finale, ma dimostrando tutta la sua incomprensione del livello di frustrazione e insofferenza raggiunto dell’italiano medio.

Gli scenari che una simile insensatezza aprirebbe sarebbero da 1922. Ma proprio per questo non è facile escluderla del tutto: d’altra parte questo è il Paese che tolse nella notte i cavalli di frisia montati dal Governo Facta, per accogliere la mattina dopo come nuovo premier il cavalier Benito Mussolini.

 

foto: history.com

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