Lettera aperta a Ezio Mauro

di critica liberale

In un dibattito pubblico imbarbarito ma soprattutto banalizzato, vediamo se si riesce a polemizzare, duramente ma con assoluto rispetto, almeno con un osservatore galantuomo e relativamente affine come Ezio Mauro.
Nel suo articolo per Repubblica Mauro, nel commentare i risultati, disastrosi per PD e scissionisti, delle elezioni siciliane di domenica, pone la questione delle prospettive della sinistra, con una critica al PD che ci si sarebbe atteso ponesse in discussione la questione storica delle “due sinistre” italiane.


Invece, tra una fuga dal tema in chiave mondialista (tra Trump e Brexit) e troppa genericità sulla storia del “riformismo” nazionale, Mauro evita del tutto di mettere i piedi nel piatto della questione.
Il tema è oggetto di una cantilena ricorrente e quasi ormai estenuata da queste colonne.
Non esiste, nello specifico nazionale italiano, il generico contrapporsi tra una sinistra “di governo, riformista” e una “di opposizione, radicale”. La sinistra massimalista ha avuto le sue occasioni di governo, e mal gliene incolse. La sinistra riformista è stata per decenni ricacciata in un’opposizione sempre più irrilevante. E Mauro lo sa bene.
Non esiste nemmeno (ma questo luogo comune almeno Mauro ce lo risparmia) una contrapposizione, spesso evocata da destra, tra “comunisti” e “socialdemocratici”.
Ben prima della nascita del partito socialista e dell’elezione di Andrea Costa, sul finire dell’800, il discrimine all’interno della sinistra italiana è sempre passato tra un liberalismo dinamico, aperto da subito alle contaminazioni e alla convergenza di obiettivi con la parte più consapevole e non massimalista del socialismo, e un massimalismo popolare ma spesso populista, non di rado vandeano, allergico alla democrazia liberale e alla cultura delle regole, pronto all’assalto al cielo ma indisponibile ad applicarsi pazientemente a due tre cambiamenti incrementali capaci di migliorare le condizioni di vita di tutti e di ciascuno; nei casi peggiori parolaio, rivoluzionario da operetta, benaltrista per ingenua convinzione quando non per tatticismo bieco.
Quando all’inizio del ‘900 questa contrapposizione tra epigoni del Risorgimento, eredi di forti correnti culturali europee, e nuove forze di massa si è plasticamente posta, alla radice della sinistra liberale, democratica, socialriformista (più tardi si dirà azionista, ma recuperando una denominazione non a caso ancora risorgimentale) si è posto il nome e l’opera di Gaetano Salvemini; dal suo magistero culturale e politico generano il giansenismo liberale e rivoluzionario di Piero Gobetti, il revisionismo radicale e innovatore di Carlo Rosselli, il liberismo duttile e anticorporativo di Ernesto Rossi, il federalismo ambizioso e radicale di Altiero Spinelli.
Nella stessa traccia (e spesso negli stessi movimenti politici che nella prima età repubblicana raccolgono, ancora citando Salvemini, “né un soldo né un voto”), in una tensione anche dialettica e perfino conflittuale si inseriscono, e non a caso, anche gli epigoni di altri due giganti decisamente trascurati dalla storiografia ma immensamente influenti sulla formazione politica e sulla concretezza istituzionale del modello italiano; due liberali a tutto tondo come Francesco Saverio Nitti e Giovanni Amendola. E di lì vengono Ugo La Malfa, Mario Pannunzio e molti amici del “Mondo”, Fuà e Sylos Labini, ma pure Villabruna e perfino (destinati entrambi a derazzare non poco) Marco Pannella ed Eugenio Scalfari.
È una sinistra che merita l’aggettivo riformista ma ha peculiarità molto precise e non è solo un generico rifiuto del ribellismo; è una sinistra che ha il culto fondante della libertà e della modernità, democratica e religiosamente rispettosa delle istituzioni; parlamentarista con ogni convinzione; custode del più rigoroso costituzionalismo; laica fino all’anticlericalismo; welfarista ma anticorporativa; moderna, aperta all’innovazione, coraggiosa e mai pietista né assistenzialista.
Con la sinistra massimalista, fattasi presto bolscevica, ha scontri epici; da quando, durante la guerra di Spagna, il suo figlio più vicino all’anarchismo, a sua volta discepolo di Salvemini, Camillo Berneri, viene massacrato dai filosovietici; fino all’opposizione furiosa e sorda del PCI al riformismo del primo centrosinistra di La Malfa, Giolitti, Saraceno, Battaglia.
Non a caso, quando ormai la crisi italiana sarà conclamata, nella seconda metà degli anni ’70 del ‘900, il PCI cercherà il compromesso storico con la DC del Moro quinta colonna del conservatorismo contro quello stesso centrosinistra; non certo un chiarimento a sinistra con gli epigoni di quelli che Mirella Serri ha definito i “profeti disarmati”.
Tutto è talmente chiaro che in quegli stessi anni due uomini della sinistra, diversissimi e a tratti tra loro nemici, come Enrico Berlinguer e il già citato Pannella, individuano entrambi nella Destra Storica un proprio ineliminabile riferimento politico, per il rispetto sacrale delle istituzioni, per la gestione sobria e rispettosa del potere, per la carica innovativa e antiprotezionista delle loro politiche. Esiste dunque per stare a sinistra una condizione culturale e politica che è di per sé opposta all’eterno costume delle destre nazionali, e questa è, anche per Berlinguer e Pannella, il liberalismo. Ma guai a farci i conti, per carità.
Certo, non è tema solo italiano. Il welfare lo ha inventato, come cultura, un liberale che si chiamava John Stuart Mill. lo hanno teorizzato liberali di norma anglosassoni, da Marshall a Dewey. Perfino il socialismo lo ha incastonato nell’evoluzione delle prassi politiche un liberale che si chiamava Hobhouse. Ne ha fatto poi concreto governo il capo dei liberali inglesi, Lord Beveridge. A mandare in soffitta l’economia neoclassica è stato un liberale come John Maynard Keynes. Dunque il tema del liberalismo nella sinistra della modernità si pone in tutto il mondo; ma è innegabile che esso sia al cuore stesso della questione della ricostruzione della sinistra soprattutto e come in nessun altro luogo in Italia.
Per questo con la caduta del Muro di Berlino è suonato antistorico e immotivato il refrain di tutte le destre a chiedere una “Bad Godesberg italiana” agli eredi del PCI; perché l’Italia non è la Germania, da noi non era esistita una storia culturale e politica di spessore della socialdemocrazia quanto del socialismo liberale (che è, in punto di concetto e di politiche, altra cosa); ed era invece con questa “altra sinistra” liberale, democratica, socialriformista (nel frattempo si era detto azionista) che occorreva fare i conti.
Invece si è preferito reclutare qualche laico in svendita, annegandolo in un mare di cattolici assoldati nelle varie Cose una, due tre, enne. Ma restando tetragoni a difesa di quella sinistra seppellita dalle macerie dei Muri, delle sue prassi, della sua cultura, dei suoi limiti. Della sua storia.
E si è finiti più a destra della destra, a recitare becerume antimmigrati, di ponti sugli stretti, di trivelle per i fossili, di mance assistenzialiste da 80 euro, di flessibilità salvifica e di “austerità espansiva”. Finché la sinistra è sparita del tutto dai radar, come cultura politica, come proposta, come contenuti, come capacità di riesaminare la propria storia, non quella della sinistra tedesca, orientativa ma alla fin fine ben diversa. Come giudizio sulle svolte storiche del Paese e sulle scelte, in esse, delle “due sinistre” effettivamente esistite e capaci di retaggi culturali ancora oggi.
Tutto questo nel pezzo di un uomo colto e non pregiudizialmente ostile a queste banali verità come Ezio Mauro non è nemmeno accennato di passaggio. E allora perché chiedersi, nel suo pezzo, cosa possano fare per questo terreno diserbato gli ectoplasmi di una radicale ormai riconvertita al centrismo come Emma Bonino; o addirittura un dignitosissimo massimalista che ha passato tutta la vita a sinistra dell’ultrasinistra, come Giuliano Pisapia, oggi incredibilmente accreditato come “riformista” (lui!) a causa solo della solita togliattiana disponibilità degli eredi del comunismo a coprire il fianco sinistro al solito becero destrorso di sinistra. Stavolta il Renzi della riforma costituzionale, delle trivelle, degli 80 euro, del rosatellum, capace però della stessa antidemocraticità, dello stesso tatticismo deteriore, dello stesso centralismo dittatoriale del PCI dei momenti peggiori. E infatti proprio quel Renzi è stato portato al governo senza passaggio elettorale da un signore comunista che esultava per i carri armati in Ungheria; e lo stesso Renzi è stato già due volte plebiscitato a capo del Pd dalla mitizzata “base” comunista, che per la democrazia parlamentare non ha mai avuto simpatia, nemmeno da quando ha smesso di oliare gli otturatori dei fucili conservati in cantina in attesa di un cenno dal “Partito” per l’inevitabile rivoluzione sociale.
Ormai siamo rassegnati a certe semplificazioni da parte di convertiti come Michele Salvati, da difensori della destra più destra, siano l’estremista Veneziani o il mimetico Panebianco; abbiamo fatto l’abitudine perfino alle ricorrenti prediche di Cofrancesco contro un fantasma del “gramsciazionismo” che in realtà è un ircocervo costruito dalla sua fertile mente ma che storicamente non si sa cosa sia.
Ma che anche un uomo come Mauro cada nel tranello e sia riduttivo di un dibattito secolare dispiace stavolta veramente troppo.
Siamo piccoli e la nostra voce arriva ai soliti happy few. Ma chissà che un uomo perbene e non distante come lui abbia voglia di risponderci e spiegarci il perché.

Un commento su “Lettera aperta a Ezio Mauro”

  1. Commento inserito da Antonio Calafati il 08.11.2017:
    Chi sono oggi e dove sono quei liberali riformisti – riformisti nel senso che descrivi – in Italia? Ma la questione è più profonda: l’ambiguità che in Italia (e non solo) la cultura riformista (liberale e socialista) ha avuto rispetto al ruolo del mercato li ha resi prigionieri del liberismo di ritorno, che si è manifestato nelle forme più dispotiche negli ultimi decenni. E non hanno più voce e seguito. E dire che sarebbe così semplice essere riformisti (radicali, però) oggi.

    Commento inserito da lodovico il 09.11.2017:
    Consiglio un libricino di Braudel “ le dinamiche del Capitalismo”. E’ scritto da uno storico e forse la sinistra dovrebbe ascoltare e interessarsi alla storia e lasciar perdere la filosofia, l’economia e la sociologia. Poneva l’attenzione sul concetto di “ economia-mondo” di merci che viaggiano assieme al capitale e di persone che della economia usano uno spazio ridotto e abitudinario e di altri pochi che vi spaziano sopra. Il mondo di Obama o di Kennedy non mi sembra esser stato migliore di quello di Trump o di Mao, anche se la sinistra parteggiava per uno contro l’altro. Preferisco una destra “ intelligente” che non si oppone o che nella peggiore delle ipotesi si fa portatrice di un liberalismo di cui è difficile prevedere i futuri accadimenti ad una sinistra che dopo tanti anni non ha ancora deciso cosa farà da grande e non sa ancora, come Lenin, “che fare”.Per questo forse Renzi non è il diavolo, come molti sostengono ma solo un uomo che pensa essere migliore delle persone che lo accompagnano nel partito e nella vita, ma questo è un altro discorso.

    Commento inserito da giovanni vetritto il 09.11.2017:
    Antonio Calafati ha ovviamente tutte le ragioni. Questa rivista se lo chiede e lo chiede dal 1993, cercando di rimettere ordine tra dove può stare il mercato e dove devono stare le istituzioni, sbugiardando i convertiti dell’ultima ora a un mercatismo che di liberale ha poco o nulla. Un riformista orgoglioso della sua diversità, Federico Caffè, aveva capito dove questa deriva ci avrebbe portato e proponeva già mezzo secolo fa, da nemico dei massimalisti, addirittura di chiudere le borse valori. Si, è tempo di radicalità

    Commento inserito da Antonio Calafati il 10.11.2017:
    Sì, appunto Federico Caffè e i mercati finanziari. E lo spettacolo di questi giorni sulle responsabilità della vigilanza bancaria, tra Banca d’Italia e Consob che si rinfacciano responsabilità. Come se non fossero state messe lì per parlarsi e fare insieme (insieme!) il lavoro. Su un tema decisivo come il ruolo dei mercati finanziari, nella società e non semplicemente nell’economia, cosa ha opposto il pensiero liberale italiano alla deriva scientista del mercatismo? Alla mitologia della speculazione finanziaria che attualizza il futuro (ma devasta il presente)? Nessuna resistenza, nulla. Non è stato neanche capace di amplificare, almeno dibattendole, le riflessioni – tra le altre – di Luciano Gallino che riprendeva la linea di Federico Caffè e si poneva delle domande sul significato dell’assetto istituzionale e sulla posizione predominate assegnata ai mercati finanziari. Il pensiero liberale (non solo italiano) non sa dire una parola sul presente e sul futuro, non vede neanche tutto quello – ed è molto – che sta cambiando. Se provo a far leggere l’editoriale di Ezio Mauro a un mio studente, dopo il primo capoverso smette. Parla di cose vecchie, stantie, inutili, cose “che si dicono tanto per dire” (da anni e anni oramai) nel milieu pseudo-intellettuale (di sinistra) che ha preso in ostaggio il pensiero liberale. Raccontata da chi rischi non ne corre (e non ne correrà mai), questa storia della società liberale come “società del rischio (perché dell’innovazione)” chi ha voglia di ascoltarla tra coloro, la maggioranza oramai, che nell’incertezza economica assoluta si trovano a vivere e progettare il futuro? Gli editoriali come quelli di Ezio Mauro sono esercizi di potere, ti portano su una falsa pista, fanno perdere solo tempo (ce lo hanno fatto perdere!). Con stima, Antonio

    Commento inserito da willy coyote il 10.11.2017:
    Capisco l’amarezza di Enzo Marzo per la mancata considerazione da parte di Ezio Mauro del ruolo svolto dalla sinistra democratica – liberale, azionista, repubblicana o radicale che sia – nella storia patria e per il fatto che, nell’analizzare la crisi del PD, sia mancato un qualsivoglia cenno a cio’ che sarebbe stato il PD se solo si fosse ispirato a quei valori, oltreche’ ovviamente a quelli del socialismo fabiano. Ma bisogna essere realisti. E’ la stessa base del PD a non aver legami con quella cultura ma preferisce ispirarsi ai valori che le ha trasmesso la cultura cattolica o quella marxista e comunista. Basta leggere le storie degli esponenti del PD per vedere che la gran parte di loro deriva le proprie esperienze politiche dalla frequentazione delle parrocchie o del sindacato (nella migliore delle ipotesi). Cosa attendersi quindi da un apparato lontano anni luce dalla cultura liberalradicale ? Che portino nei loro cuori Rosselli Amendola Gobetti o Turati e non Gramsci, La Pira e Aldo Moro ? Tempo sprecato. Ezio Mauro, da buon pragmatico con senso di appartenenza a Repubblica e attenzione alle vendite, si e’ ben guardato dal mettere in dubbio le basi ideologiche su cui e’ nato il PD sapendo che i suoi lettori non lo avrebbero seguito, ne’ i renziani di ferro ne’ i nostalgici di Togliatti e Berlinguer.
    Commento inserito da Antonio Calafati il 11.11.2017:
    La cultura liberale che Giovanni Vetritto evoca (e Ezio Mauro su “La Repubblica” ignora) non è stata capace di costruire un partito del 3% in questi anni. E neanche un think tank con un profilo nazionale che abbia in agenda i temi del presente, quelli definiscono il nostro benessere e si intersecano con i nostri valori. Perché? Questa è la domanda da porsi – che chi appartiene alla cultura liberale (radicale) dovrebbe porsi. Riflettere sulle amnesie degli intellettuali di sinistra, gli opportunismi del giornalismo italiano o l’ideologia del PD non serve a nulla. L’incapacità del pensiero liberale genuinamente riformista a organizzarsi come attore nel dibattito pubblico è il tema da declinare.

    Commento inserito da francesco il 11.11.2017:
    Insomma, questo Renzi “plebiscitato” dalla base comunista che conserva ancora in cantina i fucili arrugginiti (perché non più oleati a dovere) mi sembra un’ immagine un po’ forte. Dopo tutto l’ “alleato” di partito Franceschini si chiama Dario e non Alberto. Forse la Redazione l’ha utilizzata per cercare di scuotere Mauro dal lungo torpore postprandiale nel quale si risolve la carriera politico-giornalistica del galantuomo in questione, ma dubito che ci riuscirà. Ancora più ardita e sconcertante è la scena schizzata dal vecchio e colto collaboratore di Critica Liberale willy coyote: ve li immaginate gli elettori di Faraone impegnare le ore serali nella lettura dei Quaderni del Carcere o del Vangelo? Ho l’impressione che purtroppo la base del PD c’entri poco con Gramsci o La Pira, Rosselli o Turati. Inutile nobilitare con immaginarie ascendenze il pubblico della Ruota della Fortuna. Va a finire che uno vota PD e poi si autoassolve pensando di avere votato per Gramsci. P.S. Da quando in qua si usa la locuzione “buon pragmatico” per qualificare un opportunista che, tra l’altro, non ha certo incrementato le copie vendute del suo giornale?

    Commento inserito da Riccardo Mastrorillo il 12.11.2017:
    Con La Pira, non so… con Gramsci certamente no, del resto è proprio il tradimento della declinazione Gramsciana del comunismo che ha portato invece de “l’immaginazione” purtroppo “la cialtroneria al potere”… di cui esponente di spicco è appunto Renzi. Non si tratta più di rimpiangere una cultura oggi nealnche evocata, quella cultura in Italia è sempre stata inascoltata, del resto Einaudi chiamò le sue prediche “inutili”, perché già sapeva che sarebbero state ignorate. Però come dice Calafati, forse è ora che la cultura “Azionista, gobettuiana, liberalsocialista” si svegli e quanto meno provi a farsi sentire, intanto dallo smemorato Ezio Mauro, poi chissà…

    Commento inserito da Antonio Calafati il 14.11.2017:
    Perché chiedere a Ezio Mauro di prendere in considerazione la tradizione azionista o liberalsocialista? Perché chiedersi per quale ragione il PD non si richiami a quei valori e non se li sia caricati sulle spalle quando è stato fondato? Perché i valori in cui si crede dovrebbero essere gli altri a sostenerli, promuoverli, divulgarli nell’arena politica, giornalistica e nel dibattito pubblico? Questa distorsione – chiedersi perché gli altri…– è la conseguenza del moralismo che caratterizza la cultura liberale. Ma i valori – per quanto non negoziabili – non si incarnano evocandoli Il pensiero liberale è entrato in crisi con l’entrata in scena del neoliberismo, che ne ha fatto esplodere le ambiguità e l’afasia progettuale. L’assenza che si protrae da alcuni decenni di un progetto politico liberale – radicalmente riformista – ha lasciato spazio al progetto neoliberista,nel quale non c’è spazio per alcun valore esterno al mercato). Se si passa dal piano morale a quello politico non puoi mettere insieme Einaudi, Rossi, Salvemini, Gobettti e tutti gli altri protagonisti del liberalismo italiano. Gran parte del pensiero di questi autori è consegnato al passato. Restano un’ispirazione e un esempio di rigore morale e passione politica. Ma nient’altro – anche se è molto. La relazione tra mercato e società che proponeva Luigi Einaudi, ad esempio, non ha più alcuni rilievo, oggi. Una cultura politica liberale che incontri i problemi della società contemporanea (e del suo futuro) deve essere ricostruita in Italia e proposta con semplicità e pragmatismo. Non credo sia difficile, ma è un pensiero-azione ciò che devi proporre.

    Commento inserito da willy coyote il 16.11.2017:
    Alcuni anni fa, in occasione della pubblicazione di un libro sul contributo degli azionisti torinesi alla liberazione dal nazifascismo, il giornalista chiese ad un superstite – non chiedetemi il nome – perche’ questi giovani dopo il 25 aprile non avessero messo a disposizione del paese e della politica le loro intelligenze e il loro coraggio. Forse, aggiunse il giornalista, l’Italia sarebbe andata meglio. Sbagliato, rispose l’intervistato, noi cercammo di avere un ruolo in politica e ci impegnammo perche’ la nostra cultura liberalsocialista potesse avere un seguito anche nel dopoguerra. Ma nessuno ci segui’, i voti furono pochini e noi ritornammo al nostro lavoro ed alle nostre professioni. E’ un po’ la storia di adesso. Scusate l’insistenza ma anche nella storia del PD abbiamo visto personaggi del mondo laico cercare di trascinare questo partito in un alveo che non gli e’ proprio. Sono stati quasi tutti emarginati o comunque messi in condizione di non nuocere e fare ombra all’establishment cattocomunista. La cultura liberalradicale e’ purtroppo destinata ad essere appannaggio di pochissime persone e Ezio Mauro non e’ tra questi. In ultimo segnalo un editoriale di Scalfari del 14.11 su democratici e sinistra ove si ha la prova evidente che Repubblica, da quotidiano “liberal”, e’ divenuto cassa di risonanza di Renzi e del PD. Non e’ un bello spettacolo.

    Commento inserito da giovanni vetritto il 17.11.2017:
    Ma perché ci siamo ridotti a chiedere ospitalità a casa d’altri? Questo è il punto. Scalfari definisce liberalsocialista chiunque lui stesso decida di appoggiare (lo era pure de mita?). Noi non veniamo dalla storia del pd, i rosselli vengono massacrati in francia dai fascisti ma isolati dai comunisti non molto dopo l’assassinio di berneri. Quando arriva l’ondata mercatista e estremismi illiberale della società chiusa del profitto noi che il liberalismo vero lo conosciamo gli anticorpi li dovevamo avere. Perché ci siamo illusi che il pd facesse il lavoro intellettuale e politico che toccava a noi? Ma soprattutto, visto che lacqua passata non macina più, è davvero troppo tardi per spendere la nostra cultura nell’oggi e per l’oggi, come suggerisce calafati?

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